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L’ISTITUTO TECNICO SUPERIORE E I POLI FORMATIVI

di Gian Carlo Sacchi

Un’annosa questione: in Italia non c’è un canale di formazione superiore non universitario, e questo mette da un lato in crisi l’università che si trova con tassi di dispersione e di insuccesso insostenibili, e, dall’altro, si viene meno ad una richiesta da parte del mondo produttivo. Nel 1999 vengono introdotti gli ormai noti IFTS, di competenza regionale, che prevedevano un percorso di due anni nei primi tempi, ridotti a poco più di uno in seguito, proprio perché si era constatato che in generale i prerequisiti erano piuttosto elevati se si parla di diplomati e che un buon bilancio delle competenze avrebbe potuto ammettere proficuamente anche coloro che pur senza il diploma avevano maturato esperienze lavorative.

Le Regioni, pur dovendo soggiacere ad una progettazione e ad un controllo incrociato di scuole, enti di formazione, università e imprese, hanno organizzato autonomamente il sistema, prevedendo o la costituzione di poli territoriali in base a particolari filiere professionali presenti sul territorio o mettendo a bando le iniziative sulla base del mutare delle richieste.

La recente legge finanziaria non abroga la precedente, ma “riorganizza” il settore con l’intento di potenziarlo, stanziando anche risorse ad hoc. Con la legge n. 40 del 2007, così detta delle liberalizzazioni, si capisce cosa sia il riordino, cioè l’istituzione degli “istituti tecnici superiori”. Primo problema di non poco conto: il riordino di cui sopra lasciava inalterata, secondo la legge finanziaria, la competenza delle Regioni pur all’interno di un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa intesa con la Conferenza Unificata. Un’altra legge interpreta il riordino come nuova istituzione, dello stato, e dove l’intesa tra questi e le regioni riguarda un oggetto che ha cambiato la proprietà.

Adesso resta di sapere che cosa sia questo istituto tecnico superiore dopo aver appreso che nessun istituto tecnico o professionale verrà passato alle regioni e quindi come possa essere questa intesa che vede le regioni stesse portatrici solo di un’istanza territoriale e non di una competenza istituzionale.

Ma la legge 40, delle liberalizzazioni appunto, sembra voler glissare questo non piccolo scoglio per andare subito a decretare la possibilità che in ambito provinciale o subprovinciale possano essere costituiti “poli” tecnici e professionali, tra gli esistenti istituti scolastici di questo tipo, le strutture di formazione professionale accreditate dalle regioni, e dette strutture tecnico superiori di cui appunto non si sa ancora quasi nulla.

Siamo in un sistema di scatole cinesi: gli istituti superiori dovrebbero stare dentro ai poli, se stato e regioni hanno competenze separate, ma potrebbero anche identificarsi se tutto viene in capo a queste ultime. Gli istituti superiori sarebbero statali e i poli regionali, i primi in risposta ad un’istanza nazionale, centralista, di formazione superiore, i secondi in base ad esigenze regionali, federaliste, magari più utili per quelle regioni che hanno più necessità di espandere il sistema.

I poli fanno parte della programmazione dell’offerta formativa, nell’ambito della ristrutturazione dell’istruzione tecnica e professionale, con il compito di diffondere la cultura scientifica e tecnologica; non riguardano soltanto l’alta formazione, ma tutta la filiera, fin dal biennio del secondo ciclo, oggi definito unitario e obbligatorio. A parte il fatto che a diffondere tale cultura bisognerebbe iniziare ben prima, già dal primo ciclo o forse dalla scuola dell’infanzia, c’è da dire che non si può rinchiudere questa finalità nei poli, in quanto il primo biennio è permeabile rispetto a tutti gli altri bienni ed ai percorsi post-diploma dei poli possono accedere anche coloro che provengono dai licei e che decidono (ed è quello che si vuole se non ci sono le vere motivazioni e competenze) di non proseguire all’università.

Quello che conta di più a livello di sistema è di provare a strutturare un asse tecnologico in tute le scuole, perché ciò che importa è che questa connotazione assuma un valore di formazione generale.

Ma gli istituti tecnici superiori se non vanno tutti nei poli cosa fanno ? I poli infatti li devono comprendere obbligatoriamente, almeno uno per provincia, mentre quelli possono essere istituiti anche autonomamente. Sono istituti tecnici o professionali prolungati ? Di quanti anni ? In che rapporto stanno con le lauree triennali ? Potranno realmente fare concorrenza o drenare gli insuccessi dell’università ? Come vengono posti in relazione agli IFTS che non sono stati aboliti ? Un altro doppio canale dunque, altro che competenze concorrenti ! La questione delle certificazioni e dei titoli è ancora un’altra storia.

I poli vanno raccordati allo sviluppo economico del territorio, facendo però attenzione a non cadere prigionieri di una logica di “distretto industriale”, ma pensando ad un ruolo attivo e dinamico della formazione, non subordinato, corresponsabile dei modelli di sviluppo sociale ed economico dal versante dell’uomo e del cittadino insieme a quello del lavoratore.

E’ quindi necessario che gli stessi poli debbano comprendere le imprese, soprattutto per quanto riguarda il loro ruolo formativo, e non solo limitato alla domanda di performaces, ma devono mantenere una salda autonomia progettuale e gestionale.

Il concetto di polo a livello di organizzazione scolastica interseca quello previsto per migliorare i servizi e renderli più vicini alle esigenze dei cittadini sui territori o quelli pensati per l’istruzione degli adulti, di cui pure la recente normativa si occupa pensando anche alla formazione continua in quel determinato settore. Esso dovrà avere una sede fisica, ma potrebbe non corrispondere con una scuola e potrebbe ampliare la propria portata a livello regionale mediante strutture di rete sul piano formale, ma anche virtuale, per collaborare in sede progettuale e didattica.

Nel polo saranno da concertare adeguate politiche e metodiche per l’orientamento; infatti è necessaria una strategia che venga ad avere un positivo impatto sull’opinione pubblica: il polo deve attrarre e non solo nel post diploma, perché si fa presto a considerare che sull’onda della demotivazione il lavoro possa essere un fattore arginante e la sola occupabilità non induce ad iscriversi.

La questione di fondo rimane quella del curricolo, che avrebbe già potuto qualificare i predetti poli territoriali, ma senza grandi risultati; essi infatti si sono rivelati dei contenitori amministrativi. Tale rischio è presente anche in quelli professionali, ancorché non subordinati, come si è detto, alle realtà produttive del territorio. Occorre un curricolo che associ i processi di apprendimento, l’innovazione didattica, la diffusione della cultura scientifico – tecnica e la vocazione territoriale all’innovazione e allo sviluppo. I soggetti del polo, si dice nella norma, avranno una natura consortile, ma devono costituirsi sostanzialmente come “laboratorio formativo”, un’osmosi di esperienze svolte in contesti e con finalità differenti che possono fornire indicazioni per tutto il sistema dell’istruzione e formazione, già dal biennio unitario obbligatorio.

Il valore aggiunto dei poli andrà ricercato nella “contaminazione” culturale e pedagogica dei vari soggetti che entrano a farne parte, da un lato per confrontarsi con gli standard legati ai profili di reale assorbimento, e, dall’altro, per sviluppare capacità di cogliere i cambiamenti e di elaborare proposte di nuove competenze. Essi non apparterranno dunque soltanto al canale dell’istruzione e formazione professionale, ma devo abbracciare tutta l’offerta in tale settore come opportunità selezionata per ambiti innovativi.

Il rilancio degli istituti tecnici e professionali, che in questi ultimi anni hanno visto appannata la loro mission, deve avvenire come concorso di risorse territoriali che possono, insieme, confluire nei poli.

Le Regioni dunque danno vita a questi poli, nell’ambito dell’organizzazione dell’offerta formativa, comprendendovi, come si è detto, istituzioni scolastiche, agenzie di formazione, imprese, con il supporto di enti di ricerca; esse definiscono i settori merceologici e tecnologici e gli aspetti giuridico – amministrativi. Ma l’inghippo nasce quando questi poli dovrebbero comprendere obbligatoriamente gli istituti tecnici superiori, che nella sostanza potrebbero essere a loro volta poli, ma con la differenza che tutta questa materia la tiene saldamente in mano lo stato, che però non ha ancora detto se la nuova istituzione è post-diploma o ha radicamenti già negli attuali istituti tecnici e professionali. Le Regioni vengono sentite quando si tratta di istituire gli istituti tecnici superiori e compete invece a loro attuare i poli. E’ un circolo vizioso che da un lato sembra richiamare gli attuali poli degli IFTS a trasformarsi in istituti tecnici superiori statali, per poi ritornare regionali nei nuovi poli.

No sarebbe più semplice e proficuo tornare sulla competenza concorrente? Tutte queste cose andrebbero già riviste qualora fosse portata la gestione dell’intero sistema a livello regionale, come indicato dal masterplan delle regioni stesse, dal 1 settembre 2009.

Cui prodest ?

Per fortuna che nelle varie regioni si possono già costruire strategie, anche in attesa degli istituti tecnici superiori, che ipotizzino poli però flessibili: non tutti i settori, infatti, richiedono le stesse durate e le stesse articolazioni. Si tratta di conferire al soggetto consortile anche quelle autonomie di progettazione curricolare che ad esempio oggi le scuole non hanno, quelle modalità di utilizzo del personale che in un contratto nazionale uguale per tutta la categoria fanno fatica a trovare gli spazi necessari. Autonomia non per la subordinazione, ma per la complementarietà: ogni soggetto con le proprie peculiarità. Il mondo delle imprese ha tutto l’interesse ad avere come partner una formazione autonoma, capace e responsabile: il funzionalismo è di corto respiro, una proficua alleanza, che agisce prima di tutto sulle persone e sulle caratteristiche del territorio, può davvero realizzare innovazione.


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