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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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PROMUOVERE IL DIRITTO ALLA FORMAZIONE E ALLO SVILUPPO PROFESSIONALE

di Gian Carlo Sacchi

 

Data la situazione di basso profilo che caratterizza la riforma del nostro ordinamento in materia di formazione personale e professionale, vedere un provvedimento che si preoccupa di promuovere il “diritto alla formazione ed allo sviluppo professionale”, e per giunta bipartisan (testo unificato delle proposte di legge Bobba, Cazzola, Delfino), riaccende la speranza, ma quando poi ci si accorge trattarsi di una delega al governo praticamente in bianco, proveniente dal solo orizzonte del lavoro, che mette insieme una notevole quantità di materie, che, pur avendo necessità di essere ricondotte a sistema, in questi anni sono state affrontate con modalità e risorse molto diversificate, nasce qualche perplessità.

Cominciamo col dire che quando viene data una delega occorre precisarne i termini, in modo che chi deve affrontare i vari ambiti lo faccia tenendo presente i principi ispiratori comuni dell’intero impianto. Devono inoltre essere tenute presenti le competenze dei vari soggetti già in atto, pena l’affiancamento ad altri interventi, previsti in chiave centralistica, quando molte di queste attività sono entrate da diverso tempo nelle prerogative delle regioni o dei rapporti tra le parti sociali.

Volendo trarre da questo provvedimento una prospettiva di sviluppo istituzionale si potrebbe pensare all’applicazione del nuovo titolo quinto della Costituzione, con una legge quadro nazionale (norme generali e non delega), un efficace rapporto stato – regioni (non certo solo pareri), una gestione negoziale e “sussidiaria”. In un quadro di garanzie chiaro e partecipato si potrebbe intraprendere anche la strada della definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni”.

Il punto centrale di tutta l’operazione però deve riguardare l’apprendimento per tutta la vita, un’impostazione da tempo ritenuta necessaria sia sul piano culturale e pedagogico, sia politico (tanti tentativi legislativi sono naufragati, adesso è il turno della proposta di legge di iniziativa popolare della CGIL), anche in riferimento al costante indirizzo che ci viene dall’Europa.

In quest’ottica non si può dunque agire solo dal versante del lavoro; si sa che l’education è la risultante del doppio collegamento, da un lato, tra le politiche formative per i giovani e per gli adulti, e, dall’altro, tra la formazione generale e professionale.

Qui sono necessarie scelte di fondo che non si vedono all’orizzonte; ad esempio se sia da confermare la prospettiva di integrazione tra i sistemi, messa in atto dal primo governo Prodi e dagli accordi sul lavoro con la parti sociali ad iniziare dal 1996, seguite da alcune leggi regionali (Emilia Romagna, Toscana), in considerazione dell’innalzamento dell’obbligo scolastico (L. n. 9/1999), o da ritrattare, sulla base della creazione di diversi ed autonomi canali formativi, messi in atto dal ministro Moratti (L. n. 53/2003), seguite da altre leggi regionali (Lombardia), fino a culminare con la non ancora certa approvazione dell’assolvimento dell’obbligo di istruzione nell’apprendistato. E’ quasi inutile sottolineare che tra le predette scelte ci deve essere anche quella relativa alle politiche di orientamento, che dato l’abbassamento dell’età della scelta ci fa ritornare ad una visione deterministica che pensavamo aver definitivamente abbandonata, all’insegna non soltanto del diritto della persona al successo formativo, ma dell’efficace spendibilità delle competenze acquisite: si sa che la correzione delle scelte è una delle operazioni alle quali le istituzioni scolastiche e le agenzie formative sono richieste con maggiore frequenza.

Per quanto riguarda poi la longlifelearning non c’è solo il grande vuoto sul versante degli adulti, che certo non può essere riempito da una legge, come quella di cui si sta parlando, che di fatto si limita alla così detta “formazione continua”, rivolta cioè al mondo del lavoro, da definire ancora se riferita solo agli occupati, o anche ai precari; se riguarda solo l’aggiornamento delle competenze o anche gli ammortizzatori sociali, la riconversione professionale, ecc.

E’ impossibile quindi che un provvedimento di questo genere si realizzi solo all’interno dell’orizzonte lavori stico, quando ci sono ricadute importanti dell’apprendimento permanente sui segmenti riferiti alla formazione iniziale, che non può quindi vedere l’apprendistato come perno dell’articolarsi del sistema, a livello di bassa scolarità, ma anche per quanto riguarda ad esempio il post-diploma e la prospettiva di istituire gli istituti tecnici superiori, come “fondazioni di partecipazione”, con scuole, formazione professionale, università e imprese.

Se si vuole veramente operare nell’ottica della formazione permanente allora occorre riequilibrare la visione aziendale con quella della cittadinanza, integrare il ruolo dell’azienda formativa con le politiche pubbliche che servono ad innalzare i livelli di “literacy” e “numeracy” nella popolazione adulta, che ci vengono indicati dai parametri di Lisbona e dai quali siamo lontani anni luce, senza contare poi l’analfabetismo sociale di ritorno. Tutte le ricerche nel settore segnalano che è la formazione a chiamare altra formazione; gli adulti che ne fanno richiesta sono quelli che già ne dispongono: difficile intervenire sulla domanda di persone a bassa scolarità.

Tutto ancora da impostare, anche in relazione a modalità europee, il lavoro sulla certificazione delle competenze ed il riconoscimento di crediti: un mix tra aspetti formali e non formali.

E’ molto recente, anche in termini di indicatori quantitativi e qualitativi, il riconoscimento delle imprese formative alle quali applicare in modo diretto la politica dei voucher. Il problema, com’è noto, non è solo l’adeguamento, ma è lo sviluppo.     

Anche questa è una delle tante leggi nel settore che si fa senza aggravio per la spesa statale, e questo rischia di essere l’ennesima presa in giro, come in altri casi della riforma, a meno che non si verifichi concretamente che dalla riorganizzazione delle risorse che entrano in questa miriade di rivoli, pubbliche e private, anche rispetto agli accordi sindacali, non ci sia la possibilità di autofinanziamento.

Un’ultima questione riguarda la necessaria trasparenza che si richiede rispetto a chi dovrà gestire tutto questo impianto. Uscendo sempre più spesso dall’orbita della scuola, si pone il problema degli accreditamenti: da parte di chi, nei confronti di chi. E’sussidiarietà la parola d’ordine che si contrappone allo stato padrone, e in questo contesto ci sono anche tante agenzie provenienti dal mondo del lavoro. E’ indubbio che se si allargano gli orizzonti degli interventi formativi è sempre più necessario offrire garanzie “pubbliche” al rapporto tra domanda e offerta: questo vale per tutti, innalzamento dell’obbligo di istruzione, alta formazione, educazione permanente.

La dignità formativa del lavoro non è in discussione, piuttosto lo è l’equità dei curricoli, con il reale sostegno agli apprendimenti ed il contenimento della dispersione, all’interno dei numerosi canali attraverso i quali scorre la formazione. Tutta l’ingegneria istituzionale: certificazione, passaggi tra i sistemi, rapporti con il lavoro, rientri in formazione, ecc., deve poggiare non sulla burocrazia, ma sulla qualità della formazione stessa. Solo così si può lavorare sui voucher o sulla defiscalizzazione, evitando il rischio che un servizio sempre più a domanda individuale venga selezionato su base sociale.

C’è bisogno ancora di declinare il termine “istruzione e formazione professionale”, introdotto dalla riforma costituzionale, che oggi viene tirato verso le competenze regionali sulla scorta della legge n. 845 del 1978, che qui si dice di voler riformare.

E’ curioso come già attorno alla metà degli anni settanta la regione Lombardia voleva costruire un unico sistema regionale appropriandosi degli istituti professionali statali e come la stessa cosa sia rivendicata anche adesso sull’onda del federalismo. Un chiarimento si impone, davvero bipartisan.


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